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Il Pagliaccio si mette a nudo
di Laura Mantovano
3 maggio 2025
Festeggia quarant’anni di carriera e, in un certo senso, getta la maschera, Anthony Genovese. Mette sul piatto un menu che è una porta spalancata sul mondo, confessa qualche errore del passato e rivela il suo sogno: la speranza che i giovani abbiano più pazienza e capiscano che quello del cuoco è il mestiere più bello del mondo

Per i quarant’anni di carriera ha messo in scena un menu completamente inedito Mode XL, e con un gesto simbolico, l’indice davanti alla bocca, ha invitato il pubblico al silenzio. Come a dire: non servono parole, parla la cucina
Quarant’anni sono tantissimi, una vita, zitto parlo io, sono quello che sono senza tabù, senza paure, porto sul piatto le mie perplessità, in questo menu si ritrovano tutti i miei passaggi, poca Francia, perché è stata una grandissima scuola, ma non è la mia cucina; poi c’è l’Italia, i viaggi… questo menu è una porta spalancata sul mondo
Ad Excellence abbiamo deciso di smarcarci dall’annoso dibattito sulla morte del fine dining e parlare di true dining, credendo che il dibattito sia fra cucina vera, “identitaria” e cucina chiusa in sterili tecnicismi. Cosa ne pensa?
Sono pienamente d’accordo. Abbiamo passato il periodo in cui il cliente si chiedeva “cosa sto mangiando?”, io in primis ho esagerato con le provocazioni per colpire spesso la stampa e dimenticando il cliente; oggi sono convinto della necessità di proporre una cucina “pulita”, lineare, con grande tecnica sicuramente, ma nella quale deve prevalere il gusto, l’ingrediente. L’importante è accontentare di più il cliente che si deve sentire accolto come a casa di amici
Cosa è per lei oggi l’alta cucina?
La cucina deve essere bella e buona, sono stanco di sentire “ho mangiato lì a 20 euro”, voglio sentire dire “ho mangiato una fantastica frittura”. La cucina buona è quella che mi dà un’emozione, che può essere un piatto d’autore, una pizza o un panino

E a Roma come si mangia?
Roma oggi ha un potenziale pazzesco non solo come ristoranti, dalla carbonara al tofu, ma anche come mixology, un potenziale mai visto che non viene considerato abbastanza anche dagli stessi romani che dovrebbero essere più curiosi; la ristorazione capitolina sta diventando meno pigra, grazie alla nuova generazione e a grandissime trattorie che hanno cura di far bene il loro lavoro a livello di vino e di servizio, e sono posti “veri”
A proposito di servizio, parliamo di sala
La sala è fondamentale. Cucina e sala debbono procedere all’unisono, per far stare bene il cliente ma per stare bene anche noi, per trovare il modo di lavorare nella maniera più giusta
Anche voi avete il problema del personale?
Ni, perché i miei ragazzi non se ne vanno, Matteo, il restaurant manager, è con me da 16 anni, Luca il sommelier da 8, l’assistente manager Veronica da 6, il mio sous chef, oramai chef, Francesco addirittura da 18. Abbiamo dei pilastri

I giovani si innamorano ancora di questo mestiere?
Vorrei che lo facessero di più, vorrei che amassero questo lavoro senza troppi “se e ma, io… io… io”, ci sono delle tappe degli step, servono umiltà e curiosità, debbono capire che è un lavoro diverso dagli altri. Dopo quarant’anni io amo il mio lavoro, non amo il contorno, sempre più difficile, la burocrazia, i problemi tecnici. Anche la clientela a volte non è facile, i giovani debbono capire che il percorso è lungo, non basta una foto su una rivista… chiedo ai ragazzi di essere più flessibili, debbono capire che quando possiamo dobbiamo accontentare il cliente; gli orari sono questi, dobbiamo trovare il modo migliore per stare più sereni perché il nostro lavoro è dare, dare, dare …
Cosa direbbe a un giovane per convincerlo a lavorare nella ristorazione?
A un cuoco direi: prendi un prodotto grezzo e fallo diventare un grandissimo piatto, è una magia bellissima, prendi un pomodoro e trasformalo… quello del sommelier è un mondo infinito di studio, io ho la fortuna di avere Matteo e Luca che continuano a girare… ma anche il servizio trovo che sia un lavoro molto affascinante…
E poi la ristorazione è un lavoro che non è mai uguale, ogni sera cambiano gli ospiti ed è tutto nuovo
Proprio così. Per questo si chiama il Pagliaccio, il Pagliaccio recita, una o due volte al giorno, con il suo grandissimo carrozzone, un circo che si è spostato in Asia, nel sud Italia, in Inghilterra… davanti al cliente deve sorridere. Il Pagliaccio è molto profondo nei suoi sentimenti, non è solo uno che fa ridere, ha una filosofia potente che ti vuole trasmettere, ti vuole far sentire bene… magari in cucina ha i suoi momenti di malinconia, ma il cliente non se ne deve accorgere.
Il cliente deve solo affidarsi all’intelligenza e alla sensibilità del Pagliaccio e farsi catturare dalla magia della rappresentazione. Sipario… Qui sotto un piccolo trailer dello spettacolo…



Trevinano, il borgo milionario
di Laura Mantovano
18 Aprile 2025
Una sperduta frazione sulle colline dell’ultimo lembo del Lazio settentrionale, si aggiudica fondi per 20 milioni di euro. Un’occasione unica per rilanciare uno dei borghi più belli d’Italia e farne una perla del turismo enogastronomico

Ventimilioni di euro per 140 persone ovvero circa 142.000 euro a testa. Non è il risultato di un fortunato gratta e vinci o del montepremi del superenalotto. I venti milioni euro legati al Pnnr se li è aggiudicati Trevinano, una piccolissima frazione di Acquapendente, comune in provincia di Viterbo, partecipando a un bando ministeriale del 2022. La frazione ha ottenuto i fondi grazie al progetto “Trevinano Ri-Wind” che mira a rivitalizzare il borgo promuovendo sostenibilità, coesione sociale e innovazione. Un’occasione unica per far risorgere una frazione sperduta, tagliata fuori da collegamenti stradali e ferroviari e per portare alla ribalta una delle tante perle nascoste del nostro Paese. «È un progetto molto complesso», commenta orgogliosa la sindaca di Acquapendente Alessandra Torrisi, «molte cose sono state fatte, sono già partiti i cantieri per la sala polivalente, per la riorganizzazione degli impianti sportivi, sono stati già acquisiti quattro immobili che porteranno alla realizzazione di un albergo diffuso, c’è un progetto di coabitazione per anziani attivi. Il sogno è quello di dare un’opportunità al borgo e di valorizzare le eccellenze che in questo luogo hanno creduto da sempre». Come Iside De Cesare, una delle più intelligenti cuoche del nostro Paese, animata da spirito imprenditoriale e titolare della Parolina, ristorante che ha regalato alla frazione una stella Michelin: «Ho scelto Trevinano ventuno anni fa perché ho colto degli aspetti fortemente positivi: il paesaggio incontaminato, la posizione all’incrocio di tre regioni, mi è parso un posto trasversale che con una giusta narrazione avrebbe portato le persone a ristorarsi da tutti i punti di vista… ho lavorato per cercare di fare un incoming. Oggi fondi che arrivano sono il coronamento di un sogno e mi rendono più che mai orgogliosa della scelta che ho fatto, ora c’è la possibilità di migliorare le strutture limitrofe, di dar vita a un polo di formazione».

Sulla stessa lunghezza d’onda Simona De Vecchis, titolare con il marito Giuliano di Podere Orto “una vigna con camere”, come amano definirlo, a un chilometro da Trevinano, verso il confine con Toscana e Umbria: “«Per noi Trevinano è stato una scelta di vita, avevamo bisogno di staccare dalla città, abbiamo lasciato Roma e ci siamo trasferiti qui nel 2006». Per fare cosa? «Io volevo fare la locandiera, mio marito il vignaiolo e quindi, pur non lasciando la nostra azienda di traduzioni, abbiamo deciso di acquistare uno dei poderi ottocenteschi che erano appartenuti a famiglie nobili situato in una posizione strategica fra il ristorante La Parolina e le Terme di San Casciano. Il luogo ideale per dar vita alla nostra idea di turismo, un turismo “con l’anima”, con i nostri clienti si crea uno scambio, ci interessa la loro storia, la loro cultura…». È stato difficile portare la gente? “«No perché ci si innamora presto del luogo, ma è certo che i fondi del Pnnr sono una manna dal cielo, oggi è fondamentale avere infrastrutture efficienti a cominciare da una rete internet a prova di connessione, c’è gente che arriva dall’altra parte del mondo ed è fondamentale poter mandare una mail… poi devi offrire la possibilità di vedere un film in streaming, di ascoltare musica…». E anche a tal proposito arrivano la rassicurazione della Sindaca Torrisi «Avremo anche il potenziamento della fibra con ripetitori specifici. Il nostro obiettivo è di creare un rapporto continuo con studenti e turisti e di creare nuove residenzialità, vogliamo far capire a chi viene da fuori che aria si respira a Trevinano; è partito anche un progetto di collaborazione con importanti artisti contemporanei di arti visive che realizzeranno opere per il borgo a cominciare dall’associazione Claire Fontaine (protagonista della 60 Biennale di Venezia 2024, ndr,) ovvero Fulvia Carnevale e James Thornhill che saranno a Trevinano il prossimo 23 aprile. Ma c’è dell’altro. Abbiamo stabilito una convenzione con l’Università di Viterbo, con Dafne il dipartimento che si occupa di salvaguardia dei boschi per attività di formazione in loco e porteranno progetti di ricerca sul paesaggio; con altre associazioni abbiamo tracciato una mappa della comunità, avvieremo una serie di attività di studio approfondimento sociologico che ci permetterà di proseguire oltre il 2026». L’entusiasmo è davvero alle stelle: «Ci saranno anche progetti legati al cibo, e poi si lavora anche per la creazione di un parco interregionale fra Lazio e Umbria che dovrebbe includere i comuni di Acquapendente e quello di Alerrona in provincia di Terni; Trevinano è in una posizione fantastica tra la Riserva Naturale di Monte Rufeno e il comune di San Casciano dei Bagni», aggiunge Glauco Clementucci, assessore all’Ambiente di Acquapendente con delega su Trevinano. E per la rinascita del borgo non poteva mancare il contributo di un cittadino illustre come il principe Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi, attuale proprietario del Castello di Trevinano: «Sono molto contento di questa occasione. Il Castello farà parte del progetto, una parte verrà data in uso al comune per varie attività culturali legate al territorio. Trevinano è un borgo incontaminato, pieno di storia e natura; è importante rilanciarlo, sotto ogni punto di vista, anche da enogastronomico». Quale sarà il primo chef ad emigrare a Trevinano in nome di progetto tutto arte, natura, gusto e salute? Siamo certi che saranno in molti a scommettere su quello che si candida a diventare la nuova Pienza ovvero “la città ideale” del Rinascimento.

Da Patatas Nana a Uliassi: a Senigallia anche il cibo celebra Mario Giacomelli
Francesca Aliano
18 Aprile 2025
Due mondi lontani, un’azienda che produce patatine in busta e uno dei più grandi cuochi italiani: ad accomunarli l’amore per un gigante della fotografia del Novecento, senigalliese doc, del quale quest’anno ricorre il centenario della nascita. Due omaggi completamente diversi ma ugualmente sentiti.


«Giacomelli era il mio vicino di casa a Senigallia quando ero bambino, io abitavo in via Umberto Giordano e lui a 150 metri, in via Verdi; negli anni Ottanta quando giocavo a pallone lo vedevo passare con la sua macchina nera, il sigaro in bocca, i capelli argentati al vento… lui per me era il tipografo della città, in realtà i suoi scatti in bianco e nero, l’inconfondibile stile delle sue visioni e dei suoi paesaggi, avevano già fatto il giro del mondo… oggi trovare alcune sue foto sui pacchetti delle mie patatine devo dire che mi fa un certo effetto». A parlare è Francesco Mazzaferri ideatore con Michele Gilebbi, di Patatas Nana le iconiche chips che hanno cambiato l’immagine delle patatine in busta (solo tre ingredienti, senza conservanti né aromi).
Mario Giacomelli sugli incarti delle patatine? Ebbene sì, grazie a una geniale intuizione. «Io e il mio socio Michele Gilebbi siamo di Senigallia, la città di Giacomelli. A Michele qualche tempo fa viene l’idea di celebrarlo a modo nostro, ovvero mettendo alcune sue foto sugli incarti delle patatine; io penso che sia un’idea folle, convinto che non avremmo mai avuto il permesso. E invece Katiuscia Biondi Giacomelli, nipote del grande fotografo e responsabile della fondazione che gestisce tutta l’immagine del Maestro, ha accolto la nostra proposta. Le è piaciuta l’idea di renderlo fruibile a tutti, di farlo conoscere al grande pubblico attraverso un’azienda che a suo modo ha fatto una scelta culturale, trasformando l’immagine delle patatine».

Katiuscia Biondi Giacomelli ha scelto quattro foto iconiche del nonno: le atmosfere lunari e i solchi profondi delle serie Presa di coscienza sulla natura (1976-’80) e Metamorfosi della terra (fine anni ’80) per i pack delle confezioni da 50 g e 140 g. Sul barattolo dei Fiammiferi, invece, sono finiti i celeberrimi Pretini che giocano nel cortile del seminario di Senigallia, tratti dalla serie Io non ho mani che mi accarezzino il volto (1961-’63), mentre uno scatto della serie Per Poesie (1958), con i ragazzi al luna park, riveste la scatola con la quale vengono spedite le patatine. La limited edition sarà disponibile sino a fine anno, acquistabile sul sito di Patatas Nana e presso altri rivenditori in Italia. Le confezioni si potranno acquistare anche negli store delle location che da maggio ospiteranno due grandi mostre in onore di Giacomelli, due percorsi complementari che approfondiranno le molteplici sfaccettature del suo lavoro: a Roma al Palazzo Esposizioni dal 20 maggio al 3 agosto e a Milano a Palazzo Reale, dal 22 maggio al 7 settembre 2025.

Dalle patatine a uno dei più grandi cuochi italiani, Mauro Uliassi, anche lui senigalliese doc: «È stato per me una delle persone più importanti, con lui ho conosciuto un artista. Ed è stato molto importante per tutta Senigallia. Venne da noi la prima volta cinque giorni dopo che avevamo aperto nel 1990. Sembrava Gesù Cristo, capelli lunghi: vestiva di bianco d’estate e di nero d’inverno. Mangiò e poi sulla tovaglia trovammo un disegno fatto con il nero di seppia e la salsa ai frutti di bosco, utilizzando uno stecchino, e firmato “Giacomelli 90”. Così siamo diventati amici. Nel 1992 gli chiesi un contributo per la carta dei vini, lui prese una foto di archivio ci lavorò in sovrimpressione, montando sul golfo di Senigallia dei gabbiani in volo. Dopo due mesi tornò e mi chiese se avevo guardato bene. Poi mi mostrò la scritta “Uliassi”, che aveva impresso.
La stagione 2025 è dedicata a lui».

E quello schizzo che il maestro lasciò sulla tovaglia nel ’90 si ritrova fra le pagine del Lab 2025 (il menu frutto dello studio e della ricerca nel quale il team Uliassi si immerge ogni anno prima dell’apertura, ndr). Naturalmente nel Lab 2025 c’è spazio anche per gli ormai mitici Spaghetti Mario Giacomelli, ma rivisti alla luce di un Mauro Uliassi oggi più maturo e consapevole e fresco di un viaggio in Giappone: spaghetti al nero di seppia, ma con il suo fegato, olio di timut, polvere di limone bruciato e tè lapsang. Ieri e oggi felicemente insieme perché Uliassi è rimasto fedele agli insegnamenti del suo amico e maestro Giacomelli: “Mauro, non dimenticare mai le tue radici”, gli diceva.

Maglio, l'innovazione scritta nel DNA
di Laura Mantovano
10 aprile 2025
L’azienda che ha dato il via all’arte del cioccolato in Puglia compie centocinquant’anni. E con la sesta generazione si proietta nel futuro. Controllo totale della filiera produttiva, sostenibilità e nuovi prodotti esclusivi

Centocinquant’anni, un secolo e mezzo di storia, davvero un bel traguardo per Maglio, l’azienda che ha dato il via all’arte del cioccolato in Puglia. Un percorso che si snoda attraverso sei generazioni, perché dal capostipite Antonio fino a Vincenzo, Matteo e Benedetta, gli ultimi scesi in campo, il cioccolato è sempre stato un affare di famiglia. Una famiglia che grazie a geniali intuizioni, fin dagli esordi, ha “tenuto sempre il passo” senza disperdere la memoria di ricette e metodi di lavorazioni che oggi costituiscono un patrimonio ineguagliabile. Basti pensare che già Dante, il nipote del fondatore Antonio, soprannominato “settecervelli”, investì le sue risorse non solo per migliorare il servizio all’interno del caffè con cambio di cavalli aperto dal nonno, ma per portarlo in esterno, dando così il via all’attività di banchetti e ricevimenti che fece conoscere i prodotti “della casa” (cacao, mandorle, fichi, noci, pere e arance) in tutta la regione. È sempre Dante a pensare di ricoprire i dolcetti di pasta di mandorle con il cioccolato, per mantenerli morbidi più a lungo. Ma la produzione del cioccolato acquista nuovo impulso con suo figlio Vincenzo: è lui, infatti, ad avviare la produzione di frutta mediterranea con il cioccolato che diventerà uno dei must della casa. Fra gli anni Ottanta e Duemila, quello che era un laboratorio artigianale, si trasforma, grazie ad investimenti in macchinari, tecnologia e logistica, in un’azienda competitiva anche al di là dei confini nazionali. Ma fedele al DNA della casa, Maglio non si è fermato e ha dato vita ad un processo di filiera che ha spinto la nuova generazione ad un ulteriore salto in avanti. Ne abbiamo parlato con i giovani protagonisti

Quest’anno festeggiate 150 anni di attività, dal caffè con cambio di cavalli ad azienda con il totale controllo della filiera produttiva, un modo per rimanere fedele alle origini?
Ogni generazione Maglio ha contribuito a far evolvere l’azienda, a mantenerla al passo con i tempi. Questa spinta a innovare probabilmente è il fil rouge che ci accomuna insieme a una grande passione per il cioccolato. Noi oggi abbiamo la responsabilità di portare avanti la straordinaria eredità lasciata da chi ci ha preceduto, preservando la tradizione, ma con lo sguardo rivolto al futuro.
Oggi la produzione parte dunque dalle fave del cacao, come avete avviato il processo? Vi siete recati personalmente sul posto, stabilendo accordi con gli agricoltori?
Oltre dieci anni fa, abbiamo deciso di monitorare sin dalle piantagioni la qualità del nostro cioccolato: si è reso quindi necessario selezionare quelle aree geografiche che, con le loro varietà, potessero soddisfare il nostro progetto produttivo. Abbiamo quindi preso contatto con gli agronomi e le piccole comunità di agricoltori locali e con loro non solo abbiamo stabilito un rapporto commerciale, ma abbiamo anche condiviso e insegnato le buone prassi di gestione della terra, di raccolta e di lavorazione del cacao.
Su quale cacao concentrate maggiormente la vostra attenzione?
Noi lavoriamo principalmente con il Criollo, cacao aromatico di grande pregio, proveniente da piccoli appezzamenti del Venezuela e dell’Equador. Il nostro obiettivo è proporre al consumatore un cioccolato che riveli al palato una complessità di sfumature, fedele al terroir di provenienza. Siamo molto attenti anche al processo produttivo in azienda: per esempio la tostatura non deve mai snaturare le specifiche caratteristiche del cacao, bensì valorizzare le peculiarità.


Avete in programma l’immissione di nuovi prodotti sul mercato?
In azienda le sperimentazioni sono sempre in corso: noi Maglio amiamo dedicarci a nuove ricette e non ci spaventano le sfide. Sul fronte frutta ricoperta, di cui siamo leader di mercato, abbiamo presentato da poco il Cedro di Calabria, una referenza che ha richiesto molto lavoro: per essere pienamente soddisfatti abbiamo dovuto capire quale fosse il perfetto grado di maturazione del frutto sulla pianta prima di arrivare al risultato desiderato. Il Cedro di Calabria sarà sul mercato a partire da ottobre 2025. Nello stesso mese lanceremo una tavoletta da 50 g 100% cacao Porcelana Venezuela con produzione limitata a 1000 pezzi: si tratta del criollo venezuelano per eccellenza, rarissimo da trovare in purezza. Un’altra anteprima è l’introduzione di un nuovo cacao monorigine dal Costa Rica.
Nell’era dei social, per un’azienda di famiglia, è più facile o difficile comunicare la qualità?
I social sono una grande opportunità: consentono di arrivare a un ampio pubblico, ma nel contempo anche di targettizzare la comunicazione verso consumatori appassionati. Tuttavia, siamo consapevoli che i social devono considerarsi solo uno degli strumenti di una strategia di comunicazione integrata volta a veicolare le caratteristiche distintive dell’azienda e dei suoi prodotti.



Quale pensate sia la strategia più efficace?
Noi lavoriamo sia con progetti online che offline. Riteniamo che l’approccio globale sia quello vincente: così come l’online ci offre vantaggi quali la velocità nella diffusione di notizie e un’interfaccia immediata, per esempio, con lo shop online, il contatto diretto con il pubblico, attraverso eventi o degustazioni, rafforza la nostra brand identity, fidelizza la clientela, contribuisce al passaparola. Investiamo molto nella promozione della cultura del cioccolato di qualità, quindi non perdiamo mai occasione di confrontarci con i consumatori, perché il cioccolato merita di essere assaggiato e raccontato.
Il vostro progetto orientato alla sostenibilità include anche l’attenzione al packging?
Siamo attenti al tema del rispetto dell’ambiente e stiamo andando sempre più in direzione di un packaging sostenibile. Al momento le nostre scatole regalo sono in carta FSC (una carta certificata dal Forest Stewardship Council, organizzazione internazionale che promuove la gestione responsabile delle foreste, ndr); alcune referenze hanno alveoli in plastica 100% pet; le uova di Pasqua sono confezionate interamente in carta. Il prossimo anno introdurremo anche una linea completamente plastic free.
Nel 2024 il prezzo del cacao è aumentato di circa il 170% e le previsioni per il 2025 non sono rosee. Sempre meno e sempre più caro, il cacao è destinato a diventare quasi un bene quasi di lusso?
Innegabilmente forse già lo è. Anche noi, che abbiamo sempre pagato il nostro cacao di più rispetto al prezzo di Borsa, ci troviamo ora, a causa anche di una spregiudicata speculazione finanziaria, a soffrire questa situazione; nonostante ciò non perdiamo mai di vista il nostro focus, che è quello di continuare a garantire standard d’eccellenza del prodotto, lavoriamo per mantenere un rapporto corretto qualità/prezzo.

Corriamo il rischio di cioccolati alternativi?
Noi non consideriamo questo un rischio, ma un’opportunità. Anche la nostra azienda sta lavorando a prodotti che possano rappresentare una valida alternativa al cacao: è una sfida contemporanea alla quale non possiamo e non vogliamo sottrarci. Da questi stimoli, infatti, pensiamo possano nascere anche interessanti proposte. Naturalmente, qualora le iniziative intraprese in questa direzione si concretizzassero positivamente, si tratterebbe in ogni caso di un’offerta complementare al cioccolato, che resta per noi il core business aziendale.
Un’ultima domanda. Che sorprese ha in serbo Maglio per Pasqua? Una pasticceria milanese ha messo in vetrina un uovo da 1300 euro…
Non amiamo gli eccessi e non cerchiamo titoli sensazionalistici. Ci piace l’idea di offrire ai nostri consumatori un prodotto di alta qualità, artigianale (è realizzato quasi interamente a mano), ben confezionato, a un prezzo in equilibrio con il tutto. Agli intenditori e ai choco-lovers consigliamo di provare il nostro Uovo Cuyagua 100% cacao criollo; per gli amanti della tradizione suggeriamo l’Uovo fazzolettato da 1kg, sartorialmente “vestito” a mano con eleganti carte, tessuti e coccarde. Ai più golosi proponiamo le uova con le granelle salate di arachidi, mandorle e pistacchi, oppure il fondente con scaglie di biscotto croccante o riso soffiato. Chi ama sorprendere, non resisterà all’Uovo Violet, che nasce dall’unione tra cioccolato bianco Maglio e patata dolce dell’isola giapponese di Okinawa, dal caratteristico colore viola, dovuto ad un’alta concentrazione di elementi antiossidanti.




Maglio Arte Dolciaria srl – via V. Zara 2 – 73024 Maglie (LE) tel. 0836 427444 – www.cioccolatomaglio.it @cioccolato maglio
Ricominciamo dall'orto
di Laura Mantovano
4 aprile 2025
Il Don Alfonso 1890 della famiglia Iaccarino riapre le sue porte per la nuova stagione. Antesignano in tema di ecologia, biologico e biodiversità, il ristorante spingerà ulteriormente l’acceleratore sulla sostenibilità. Il menu di punta dell’anno sarà infatti dedicato all’orto di Punta Campanella. Ne abbiamo parlato con il suo artefice Ernesto Iaccarino che dice la sua anche sul ruolo del cuoco

“Quest’anno abbiamo dedicato uno dei nostri menu degustazione all’orto biologico di Punta Campanella… Dopo cinquant’anni di ristorazione vogliamo mettere a frutto tutto ciò che abbiamo imparato in termini di sostenibilità per gli esseri umani e per il pianeta, di design, di consistenze, di tecniche. Ma soprattutto abbiamo deciso che il gusto di ogni piatto deve avere un DNA preciso, riconoscibile. Deve rimandare ai sapori di un tempo. Per questo utilizziamo anche il fuoco e il carbone, perché la memoria del gusto è forse la più forte: ancestrale, autentica, quella che più ci appartiene”.

Sono le parole con le quali sulla sua pagina Instagram Ernesto Iaccarino ha dato appuntamento al 5 aprile per la nuova stagione del Don Alfonso 1890.
Un vero manifesto programmatico, la chiusura di un cerchio per una delle più grandi tavole del nostro Paese, la prima ad aver promosso la dieta mediterranea nel mondo. Nei primissimi anni Novanta Livia e Alfonso Iaccarino, sfidando chi li considerava dei folli visionari, con l’avvio dell’azienda di Punta Campanella, sono stati dei precursori in tema di ecologia, biologico e biodiversità. E a novembre 2022 hanno chiuso i battenti per oltre un anno per proiettare il Don Alfonso ulteriormente nel futuro con un progetto di sostenibilità a 360°: Zero emissioni, Zero Waste e gestione delle acque. E ora la decisione di puntare sui “sapori di un tempo” che non significa un anacronistico ritorno al passato ma ad una “semplicità” ragionata, frutto di consapevolezze e tecniche acquisite. Un passaggio necessario per l’alta ristorazione per rimanere al passo con i tempi.

Un intero menu dedicato all’orto di Punta Campanella, in nome di una cucina “vera” identitaria, una cucina che non si chiude in sterili tecnicismi, uno dei capisaldi di quello che abbiamo definito “true dining”. Giusto?
Proprio così, un percorso di sei portate nel quale s’intrecciano ricordi, profumi e sapori. Piatti “immediati”, frutto di ingredienti di assoluta qualità, nei quali la tecnica è a totale servizio della materia. C’è tanto, studio, tanta ricerca dietro ogni proposta, ma il cliente non deve accorgersene, a lui debbono arrivare sapori ed emozioni.
Quali saranno i piatti?
Si parte con le Zucchine cotte sui carboni, il loro fiore croccante, fonduta di scamorza affumicata, crema di zucchine alla scapece e menta (un piatto per il quale sono partito dal ricordo delle zucchine che nonna Titina mi cucinava alla brace e condiva con olio extravergine, peperoncino, menta e aglio. Qui ho giocato con le consistenze) e si finisce con la Bistecca di cavolfiore, battuto di cipolla, capperi e semi di finocchietto con salsa di yogurt e pepe nero: il cavolfiore viene cotto in padella come una bistecca e servito con un battuto di cipolla, capperi, semi di finocchietto e una salsa di yogurt di bufala e pepe nero.
In mezzo La reinterpretazione dell’uovo in tegamino con burrata e tartufo nero; Gli ortaggi di stagione con ravioli di funghi pioppini della Sila, gelato di rafano e salsa agrodolce alla curcuma; la Zuppa di asparagi con tuille al latte, mousse di ricotta di bufala e olio al tartufo bianco; gli Gnocchi di zucca con cuore liquido di caprino, salsa di pistacchio con emulsione di acqua di zucca e parmigiano.
Zucche ad aprile?
Le zucche sono di settembre conservate al fresco in azienda agricola, questo è un piatto di recupero. Per fare gli gnocchi di zucca dobbiamo cucinare le zucche al forno e farle asciugare bene, per cui tutta l’acqua di cottura viene recuperata e viene emulsionata con parmigiano e olio extravergine. Anche questo è un abbinamento della memoria.
A proposito di memoria, c’è un classico della tradizione che vi viene richiesto e che non riuscite a togliere dal menu, come succede da Vittorio a Brusaporto con i famosi paccheri alla Vittorio?
Sono addirittura due il Vesuvio di rigatoni e gli Strascinati di Nonno Ernesto, una sorta di cannelloni alla sorrentina; si alternano regolarmente in carta e vantano una folta schiera di fedelissimi
Enrico Cerea (il patron di Da Vittorio, ndr) sostiene che oggi è tempo di tornare a una semplicità che regala emozioni, legata all’accoglienza e al servizio in modo da regalare un’esperienza unica alla clientela. Ma questa è in fondo da sempre la filosofia di “casa Don Alfonso”…
Noi da sempre pensiamo che l’ospite che viene al Don Alfonso 1890 deve sentirsi a casa. Chi va fuori a pranzo o a cena vuole vivere un momento di felicità che gli faccia staccare la spina dalla routine quotidiana. Ed è per questo che abbiamo costruito attorno al concetto del food un’oasi di benessere dove poter esser coccolati dalla colazione fino a cena. Negli anni abbiamo costruito otto suite, il giardino, la piscina e una grande cantina, tutto finalizzato ad offrire più servizi ai nostri ospiti per vivere un’esperienza completa attorno al cibo.



Uno stile che il don Alfonso ha portato in varie parti del mondo. Con qualche diversificazione?
Siamo stati il primo ristorante italiano ad aver aperto in tutti i continenti (dal Missouri alla Cina, dal Portogallo al Canada e alla Nuova Zelanda, ndr) e il concetto di ospitalità di Sant’Agata abbiamo provato a portarlo in tutti i nostri ristoranti. Le differenze più marcate sono state in cucina perché ci siamo resi conto che le materie prime in ogni continente erano diverse e senza le stesse materie prime non si poteva scimmiottare quello che facevamo a Sant’Agata. Per cui siamo partiti studiando le eccellenze di ogni singola nazione, abbiamo fatto un lavoro di conoscenza dei piccoli artigiani locali e abbiamo deciso di interpretare le loro materie prime. Quello che abbiamo esportato è stato il nostro know how e la nostra idea di cucina mediterranea. E non abbiamo fatto deroghe rispetto ai capisaldi: olio extravergine, pomodori pelati e pasta di Gragnano partono dalla nostra azienda.
Si parla molto della crisi dell’alta ristorazione ma gli ultimi dati di Centromarca dicono che a rallentare è la ristorazione di fascia media e bassa e che invece cresce il segmento premium (addirittura un + 6%) anche se si prevede per il 2025 una flessione dell’1,6%. Voi previsioni fate? In che percentuale fra italiani e pubblico straniero?
Molto dipenderà da come andranno le due Costiere (quella Sorrentina e quella Amalfitana), se le due coste sono piene, noi normalmente siamo pieni. Generalmente la nostra clientela è molto variegata, abbiamo molti italiani, negli ultimi anni anche molti campani, e tanti stranieri.
E i giovani frequentano l’alta ristorazione?
Sì, negli ultimi anni molti più giovani si avvicinano ai ristoranti di qualità per vivere un’esperienza.
Il leit motiv è la difficoltà di trovare personale, Cosa ci vorrebbe per farli innamorare della professione? Anche voi registrate le stesse difficoltà?
Diciamo che questa purtroppo è una tendenza mondiale, da dopo il Covid sempre meno persone lavorano nell’industria dell’ospitalità preferendo lavori più comodi. Poi in Italia soffriamo di problemi strutturali perché abbiamo veramente poche scuole alberghiere di qualità dove formare i giovani; se le istituzioni non fanno la loro parte in modo significativo, come formare gli chef del futuro nel nostro Paese? Bisogna partire da lì, dalla formazione. Dobbiamo far innamorare i ragazzi del nostro lavoro. Noi abbiamo un’azienda internazionale, quindi riusciamo anche ad attingere dagli altri paesi dove siamo presenti e dove formiamo cuochi.
Il futuro chiede innovazione, sostenibilità, efficienza logistica e digitalizzazione, a che punto è la ristorazione secondo te?
I ristoranti in Italia generalmente sono nelle mani delle famiglie per cui si parla di piccole aziende che hanno più difficoltà ad adeguarsi a cambi del genere, però dobbiamo anche dire che questa parte del Paese è molto sana ed è ancora piena di energia. Io sono fiducioso.
Un’ultima domanda che ne pensi della provocazione di Yannik Alléno che ha vietato nella sua cucina l’uso delle pinze in nome di un contatto più autentico fra materia prima e mano dello chef? Una sottile critica a virtuosismi esasperati?
Finalmente. Io sono totalmente d’accordo con questo approccio, ripeto sempre ai miei ragazzi che prima di impiattare devono assaggiare tutto. Bisogna avere un rapporto intimo con il cibo, le mani aiutano, questo è un atto d’amore. Noi cuochi siamo il mezzo attraverso il quale esaltare al massimo la materia prima di questo meraviglioso Paese, non siamo il fine, non dobbiamo essere autoreferenziali ma usare la nostra conoscenza e le nostre professionalità per esaltare gli ingredienti e far vivere esperienze significative ai nostri ospiti.

UE-Vino e UE misure a sostegno
di Giuseppe Reddocili
4 aprile 2025
Tempi duri per il vino europeo: consumi in evoluzione e in calo, cambiamenti climatici che rendono sempre più complessa la produzione, la posizione dell’Oms (“non esiste una quantità di alcol priva di effetti sulla salute, l’alcol è una sostanza tossica, psicoattiva e che induce dipendenza”) e i nuovi dazi (20%) da parte degli Stati Uniti, principale mercato di sbocco. Dalla Commissione Ue sono arrivate le prime risposte. Il commissario all’Agricoltura, il lussemburghese Christophe Hansen, il 28 marzo ha presentato una serie di misure a favore del settore vitivinicolo europeo per fronteggiare la contingenza. Il nuovo “pacchetto vino” prevede misure come la “rottamazione dei vigneti”, la distillazione e la vendemmia verde (il taglio dei grappoli prima della maturazione) che però potranno essere adottate utilizzando solo fondi nazionali e non facendo ricorso a finanziamenti Ue, come era possibile in passato. Il provvedimento punta a semplificare le regole dell’etichettatura (l’introduzione del QR code è fondamentale per “stabilire un’identificazione comune a tutta Europa con un simbolo” al posto della parola che necessita di traduzione) e a rendere più “attraenti e familiari” le denominazioni dei vini a bassa gradazione o analcolici: la proposta è quella di usare termini come “alcol free” per i vini con volume di alcol inferiore allo 0,5%, e quella di vini senza alcol magari aggiungendo “gradazione alcolica 0,0%” per quelli destinati ai Paesi Arabi o del nord Africa che potrebbero rivelarsi mercati alternativi a fronte dei nuovi dazi applicati da Trump, per i quali si prevede un danno di 323 milioni di euro annui. I vini dealcolati sono un tema sempre più scottante e attuale: «Da quest’anno i vini NoLo saranno parte del programma per ampliare le opportunità di business e affrontare l’evoluzione della domanda», ha dichiarato il presidente di Verona Fiere, Federico Bricolo. Non c’è dubbio che il tema sia divisivo. Da un lato i puristi convinti che quello senza alcol non sia vino, dall’altro chi vede in questo la risposta alle nuove abitudini di consumo (i dati dell’IWSR – International Wine & Spirits Research – dicono che il mercato internazionale dell’analcolico registrerà una crescita di oltre 4 miliardi di dollari entro il 2028). Interessante in questo senso la dichiarazione del re del Barbaresco, Angelo Gaja lo scorso 31 marzo ad Alba all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Accademia Italiana della Vite e del Vino: «L’Oms ha detto che l’alcol è quasi un veleno… E noi siamo fermi non abbiamo introdotto novità…dobbiamo rimodulare il messaggio. Ero partito contro i vini dealcolati, mi sembravano un errore. Adesso non sono contrario, la ricerca metterà meglio a punto il modo di produrli». E apre anche all’intelligenza artificiale: «Stimolerà la creatività e abbiamo bisogno di creatività. Ci sarà il naso artificiale per la misura dell’acidità, del tannino, della concentrazione. Ma non dell’eleganza. Per quella ci vorrà sempre l’uomo». Le nuove misure Ue prevedono anche l’estensione di fondi e agevolazioni ai consorzi di tutela, fattore che potrebbe rivelarsi un aiuto concreto per il settore vinicolo perché come ha recentemente dichiarato in un’intervista a la Repubblica Roberta Garibaldi, presidente dell’Associazione Italiana Turismo Enogastronomico «favorirebbe nuove iniziative… mentre calano i consumi le ricerche su google per i “wine tour” sono in costante crescita…diverse aziende soffrono di un calo di vendite ma riscontrano aumenti significativi delle entrate da attività turistiche». Positive le reazioni della presidente di Federvini Micaela Pallini: «Il pacchetto vino offre strumenti di gestione più flessibili, sostiene gli investimenti orientati alla sostenibilità e rinnova l’impegno europeo a favore della competitività dei nostri produttori». Sulla stessa lunghezza d’onda, Paolo Castelletti, segretario dell’Unione Italiana Vini: «Sono state accolte le richieste di flessibilità e semplificazione. Riteniamo che la proposta rappresenti un buon punto di partenza e siamo pronti a dare un contributo al perfezionamento del testo in vista della discussione e approvazione del regolamento». Soddisfatto anche il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti che ha chiesto «che la maggiore flessibilità contenuta in alcune misure della proposta sia applicata anche alla gestione finanziaria per un migliore utilizzo delle risorse». Commenti positivi pure da Coldiretti per la scelta del QR code sulle bottiglie del vino, «auspicando però grande chiarezza in tema di dealcolati e degli ingredienti usati per evitare di confondere i consumatori». Una delle più note esperte del settore, la giornalista Adua Villa, dichiara “Un fatto è certo: la domanda di vini dealcolati è cresciuta perché risponde a una serie di esigenze legate alle tendenze globali e al marketing, all’inclusività e a un cambiamento culturale verso un consumo più consapevole. La GenZ, ma non solo, sembra meno interessata verso il consumo del vino, dalle generazioni precedenti, e più aperta a sperimentare prodotti nuovi come questi” E a proposito di consumatori, gli ultimi dati dell’Osservatorio Uiv-Vinitaly su base Iwsr diffusi il 27 marzo a Roma nel corso della conferenza stampa di presentazione della 57ma edizione di Vinitaly, hanno scalzato via il luogo comune dei giovani “nemici” del vino. Sono gli under 44 italiani e americani a sostenere il mercato e a spendere di più, sono loro a percepire il vino some status symbol, sono disposti a spendere per etichette super Premium, amano bere in compagnia e non vogliono rinunciare ai cocktail. Il futuro non è dunque così nero; l’importante sarà gestire con misura e intelligenza consumi, mercato e immagine.

I Maestri della Cucina Italiana premiati a Palazzo Chigi
di Redazione
2 aprile 2025

Una cornice di assoluto prestigio, di quelle che vengono riservate alle grandi occasioni, il cortile d’onore di Palazzo Chigi. E il fatto assume maggiore valore perché il presidente del Consiglio Giorgia Meloni questa mattina nella sua “casa” non ha ricevuto un capo di stato in visita ufficiale, ma ha accolto, unitamente al Ministro dell’Agricoltura, Sovranità Alimentare e Foreste Francesco Lollobrigida, i primi otto Maestri dell’Arte della Cucina Italiana, riconoscimento istituito con la legge 59/2024 che ha dato seguito al cosiddetto ddl Massari. Otto categorie e altrettanti riconoscimenti per professionisti che si sono distinti nei loro rispettivi ambiti e hanno contribuito a tenere alto nel mondo il prestigio della cucina italiana e a valorizzare le eccellenze nazionali. I premiati? Iginio Massari (arte della pasticceria), Franco Pepe (arte della pizza), Massimo Bottura (arte della cucina), Riccardo Cotarella (arte vitivinicola) Piercristiano Brazzale (arte casearia), Maria Francesca Di Martino arte olivicola, Carlo Petrini (arte della gastronomia), Carlotta Fabbri (arte della gelateria). Un passo importante per il quale il maestro Iginio Massari si batteva da anni: «La storia per arrivare qui è stata lunga, e devo dire che Giorgia Meloni è stata l’unica, fra tutti i governi, che mi ha ascoltato», ha detto Massari intervenendo sul palco, «è stato un percorso difficile, lungo più o meno ventidue anni». E poi a fine cerimonia ha aggiunto: «L’Italia aveva bisogno di una legge trasversale a favore dell’artigianato, una legge di civiltà che molti Paesi avanzati hanno da tempo e che oggi, è finalmente possibile anche qui.» Felicissimo anche Franco Pepe: «L’Italianità nel mondo è apprezzatissima e richiestissima, una percezione che ho avuto facendo una lezione di un’ora e mezza a Las Vegas… l’importante è fare rete, fare squadra e dialogare con le istituzioni». Il modello a cui si ispira la legge è quello del MOF, acronimo di Meilleur Ouvrier de France, ovvero miglior artigiano di Francia, concorso che in Oltralpe esiste dal 1925 e che rappresenta la maestria nella sua massima espressione, il massimo del talento, l’eccellenza nella professione. E questa lacuna culturale vuole colmare, almeno nelle intenzioni, il riconoscimento italiano: «Ci sono voluti 100 anni rispetto al premio Meilleur Ouvrier de France a cui ci siamo ispirati, ma ce l’abbiamo fatta. «Con questo premio celebriamo non solo chi ha raggiunto l’eccellenza ma la possibilità di trasmetterla: i maestri saranno infatti coinvolti in un dialogo con le scuole per poter ispirare i Maestri di domani,» ha affermato il ministro Lollobrigida, «grazie ai maestri premiati per la passione, competenza che offrono ogni giorno. So quanto il settore aspettava questo riconoscimento». A differenza del cugino francese, il riconoscimento italiano è circoscritto all’enogastronomia e non prevede prove ed esami ma soltanto che i destinatari abbiano almeno 15 anni di esperienza nel settore di riferimento. Tutto bene, dunque? Nelle intenzioni indubbiamente sì, ma qualche perplessità rimane. Senza nulla togliere, infatti, alle professionalità premiate tutte di indiscutibile valore, nella prima edizione di un premio che vuole esaltare il lavoro dell’artigiano, accanto a nomi come quelli Iginio Massari, Massimo Bottura e Franco Pepe, esempi altissimi di professionisti con “le mani in pasta” nel senso più alto del termine, viene da chiedersi quale sia il criterio che ha portato per la gelateria a scegliere Carlotta Fabbri, digital sales & marketing director dell’omonima azienda emiliano-romagnola Fabbri 1905 e presidente del Gruppo Gelato per l’Unione Italiana Food. Nome di spicco del panorama industriale, una manager di grande successo (e in tal senso un altro orgoglio italiano) ma non un’artigiana del food. Per la prima edizione di un riconoscimento per i Maestri dell’Arte della Cucina Italiana, forse andava lasciato spazio a uno dei grandi maestri gelatieri che il nostro Paese può vantare. E non c’era che l’imbarazzo della scelta.

La Viola Regale,
la colomba che sfida i pregiudizi
di Francesca Aliano
28 marzo 2025
La Pasqua del 2025 passerà alla storia come quella della riscossa del colore viola. Da colore simbolo di lutto e penitenza (è il colore ufficiale della Quaresima), a simbolo di rinascita. E tutto per merito di una farina. A lanciare la “provocazione” la coppia più glamour della pasticceria, Marta Boccanera e Felice Venanzi, titolari di Gruè di Roma, oggi una delle migliori insegne dolciarie italiane.

Come è nata l’idea della Viola Regale (questo il nome scelto per la colomba)?
«Tutto è partito dall’ultimo Sigep (gennaio 2025, ndr)», raccontano Marta e Felice, «durante il quale Il Molino della Giovanna, ha presentato la farina Viola, inserita nella linea Uniqua. Un prodotto decisamente interessante: una farina integrale di grano tenero con germe di grano che nasce dalla macinazione di grani naturalmente pigmentati, varietà di grano, viola, blu e nero (il colore è dato dalla presenza di antociani); una farina con un indice glicemico più basso di una normale farina integrale, cosa che la rende molto più digeribile e tollerata da chi ha sensibilità al glutine grazie alla presenza degli antiossidanti che svolgono un ruolo antinfiammatorio. Da qui l’idea di sperimentarla con il primo lievitato utile, vista anche la richiesta, sempre più pressante, di prodotti che evitino il picchio glicemico, da parte dei clienti. Abbiamo fatto diverse prove prima di entrare in produzione, ma alla fine la farina viola ci ha convinti. Sviluppa molto bene e ha un piacevolissimo profumo».
Ma che sorprese nasconde all’interno la colomba?
«L’abbiamo arricchita con limoni canditi e fragoline, “sigillata” con una copertura al cioccolato bianco reso violaceo con colorante a base di burro di cacao e decorata con viole essiccate».
Un vero inno al colore viola, una sfida ai luoghi comuni.
«Ci abbiamo ragionato molto», continuano Marta e Felice, «il viola, sintesi del passionale rosso e del rassicurante blu, in realtà in molte culture è sinonimo di esclusività e regalità, di lusso, originalità e persino di sperimentazione, quindi perfetto per lanciare un prodotto che potrebbe aprire nuovi fronti per la pasticceria chiamata sempre più a confrontarsi con dolcezze che tengano sotto controllo i parametri. Certo, parliamo sempre di zuccheri ma riuscire a dosare i picchi glicemici non è una conquista da poco, a cominciare dalla colazione. Per questo il prossimo passo sarà quello di testare la “signora in viola” per brioche e veneziane e poi…». E poi? «Tempo al tempo», conclude Marta.

di Laura Mantovano
10 marzo 2025
Il dibattito sulla presunta crisi del fine dining continua a tenere banco fra gli addetti ai lavori. Ma forse è tempo di spostare il ragionamento fra una cucina “vera” identitaria e una cucina chiusa in sterili tecnicismi. A vincere è chi regala un’esperienza a misura di cliente. In pizzeria come al ristorante
Il fine dining è morto? Il leit motiv ricorre da tempo (in particolare modo da gennaio, da quando Felice Lo Basso ha annunciato la chiusura del suo locale, “perché a Milano non c’è futuro, la ristorazione è finita”) e non c’è intervista a un cuoco che nella seconda o terza domanda al massimo, non ponga l’ormai annosa questione. Un vero incubo per i nostri maestri dei fornelli che debbono spiegare, circostanziare l’argomento e, per fortuna, il più delle volte ribadire (magari con tutti gli scongiuri del caso) che il cosiddetto fine dining gode di buona, se non ottima salute. Ma ecco il nodo. Cosa intendiamo oggi quando parliamo di fine dining? Cucina raffinata? Mangiare bene e in maniera raffinata, come suggerisce una traduzione più o meno letterale? Se con fine dining identifichiamo una ristorazione autoreferenziale, chiusa “nel suo castello di cristallo”, un servizio tanto perfetto quanto asettico, ferrei menu degustazione, orari rigidissimi e magari ingredienti di lusso (tartufo, foie gras e caviale), allora sì, questo è un capitolo chiuso e anacronistico. Ma se per fine dining intendiamo la cucina d’autore, l’alta cucina, una cucina “pensata” quella che ha l’intelligenza (e il compito) di dar vita ad un’esperienza completa che va al di là del piatto, la platea è larga.

Accoglienza e comfort sono il futuro
Certo, entrano in gioco tante componenti, a cominciare da un sano conto economico. Come ha ben sottolineato Niko Romito in una recente intervista a Il Gusto “Quando un fine dining chiude è per variabili che non sono da attribuire alla crisi del settore ma alla gestione del ristorante, al modello e alla sua offerta… È un momento di grande creatività, siamo consapevoli del valore che la nostra tradizione possa avere per affrontare il futuro… certo l’equilibrio fra creatività, sostenibilità ambientale ed economica non è semplice”. Non semplice ma non impossibile soprattutto quando in campo ci sono lucidi imprenditori in grado di cogliere le tendenze e le esigenze: “Accoglienza e comfort sono il futuro: Il ristorante è un’altra cosa, deve poter dare servizi di accoglienza, di comfort, deve togliere degli obblighi, non puoi mangiare per forza alla 20 senza poter scegliere”, ha sottolineato sempre da le colonne de Il Gusto con fermezza Raffaele Alajmo chiamato a dire la sua sul tema. Sulla stessa linea la riflessione di Christian Costardi, titolare con il fratello Manuel del ristorante Cinzia – Christian e Manuel di Vercelli (ma i Costardi Bros sono anche gli artefici della nuova vita del Caffè San Carlo di Torino), nella sua lettera aperta a Linkiesta: “il cliente del 2025 non cerca uno spettacolo ma un luogo in cui sentirsi bene; vuole un’esperienza autentica, fatta di accoglienza di atmosfera, condivisione. Vuole spazi che trasmettano calore, suoni he rilassano, luci che avvolgono: E il piatto? Resta fondamentale ma non è più al centro della scena, è un tassello di un mosaico più ampio, un accessorio prezioso in un’esperienza più sfaccettata… la qualità e il rispetto per il cliente devono essere al centro. Da McDonald’s alla Tour d’Argent, chi fa ristorazione ha una responsabilità: offrire cibo buono, fatto bene e in linea con il proprio pubblico. L’evoluzione non significa perdere identità, ma saperla adattare ai tempi. La ristorazione non muore, cambia. Sta a noi scegliere se restare ancorati a vecchi schemi o essere parte di questa nuova era”.
La ristorazione non muore, cambia
La ristorazione non muore cambia: parole sacrosante. Cambia e bisogna adeguarsi. “Il futuro della cucina è forse abbandonare un po’ quell’egocentrismo creativo che ha fatto tanti danni, tornare a una semplicità ma non a una semplicità facile, è una semplicità che sviluppa emozioni e, legata all’accoglienza e al servizio, regala un’esperienza unica alla clientela”. Così Enrico Cerea nel reel per promuovere il suo intervento al 20° congresso Identità Golose. Enrico Cerea ovvero un tre stelle Michelin, Da Vittorio a Brusaporto, dove ci si mette il bavaglino al collo con la scritta “oggi sono goloso” per assaporare in tutta tranquillità i mitici paccheri ultimati al tavolo. Il nuovo lusso, come scrive Annalisa Cavaleri, giornalista, critico gastronomico e professoressa universitaria alla Iulm di Milano, nel suo libro Luxury food, ha delle nuove parole chiave: identità, creatività, unicità, storia, tradizione, mito, territorio, sostenibilità, etica, plant based, l’arte delle collaborazioni, experience, il fascino dell’altrove. L’importante, dunque a questo punto non è tanto la distinzione fra cucina d’autore, cucina classica, cucina rivisitata, trattoria contemporanea, bistrot, e chi più ne ha più ne metta, ma fra cucina “vera”, cucina di sostanza, con piatti che arrivano dritti al cuore, netti, puliti con pochi ingredienti (i tre ingredienti caldeggiati da Peppe Guida), e cucina improvvisata, avanguardia fine a se stessa, esercizi di stili che si risolvano in inutili tecnicismi.
Il nuovo luxury food
Una ristorazione in cui cucina, servizio e ambiente viaggiano in perfetta sintonia, una ristorazione che valorizza l’inconfondibile stile made in Italy. Forse è arrivato il momento di parlare di true dining? Forse, ma al di là degli slogan, è fondamentale non perdere di vista che in una fase così complessa come quella attuale, per dirla sempre con le parole di Annalisa Cavaleri, “il luxury food è amore per territorio, attenzione per la salute, servizio sartoriale, un percorso di degustazione per creare un’esperienza di conoscenza, sorpresa e scoperta”. E in questo non ci sono steccati. Un’esperienza a misura di cliente, un’esperienza di “true dining” la regalano Dal Pescatore della famiglia Santini, il Don Alfonso 1890 degli Iaccarino, La Pergola di Heinz Beck, Pascucci al Porticciolo, Da Vittorio dei Cerea, l’Imago di Andrea Antonini, Il Reale di Niko Romito, Le Calandre degli Alajmo, la Francescana di Massimo Bottura, il D’O di Davide Oldani, La Madonnina del Pescatore di Cedroni, Uliassi, L’Argine a Vencò di Antonia Klugmann, La Gioconda di Davide Di Fabio ma anche Authentica di Franco Pepe, o I Tigli di Simone Padoan piuttosto che Sora Maria e Arcangelo di Giovanni Milana o la Brinca della famiglia Circella, o ancora L’Antica Osteria Nonna Rosa di Peppe Guida. Gli esempi potrebbero continuare a lungo ma bastano a dare l’idea di cosa Exellence nel magazine e attraverso i suoi eventi vuole continuare a raccontare e promuovere. La cucina totale di Gualtiero Marchesi basata su tre capisaldi: semplice, buono e bello forse non è concetto del tutto superato. Anzi. “Il mio obiettivo è la semplicità, affermava il Maestro, “e alla semplicità si arriva prima di tutto con la conoscenza della materia. Solo la conoscenza permette il rispetto della materia e quando si rispetta la materia si ottiene semplicità”. Ma la semplicità è un sistema complesso.